dal piatto al bicchiere
La storia della cucina che si sviluppa dai primi dell’800 fino ad oggi, come tutte le storie che si rispettino, è composta da tappe e percorsi fondamentali.
Si parte dalla grande cucina di Auguste Escoffier, uno dei precursori, il primo ad abbandonare le cucine borghesi delle case francesi creando la grande rivoluzione alberghiera, che passa dall’estro e dalla nouvelle cuisine di Fernand Point prima e successivamente a quella di Paul Bocuse, colui che inventò le piccole porzioni nei grandi piatti e la “cucina di mercato”, ovvero una cucina che dipendeva dalla spesa e non una spesa che dipendeva dal menù.
Questo lungo percorso ci conduce ovviamente alla cucina sperimentale di Ferran Adrià che molti, erroneamente, definiscono “padre della gastronomia molecolare”, forse più l’alfiere di un modo di fare cucina tutto in cortocircuito tra creatività e prodotto. La cucina italiana nasce dalla “fame”, la fame delle famiglie del primo e secondo conflitto mondiale, dove si campava di solo pane o poco più.
Qui nascono i piatti poveri della tradizione italiana più volte rivisitati anche da grandi chef.
La cucina del Belpaese vanta una realtà gastronomica unica ed è probabilmente ancora oggi un punto di riferimento, una cucina che è riuscita ad adattarsi nel corso della sua storia ad una serie di importanti influenze; da quella dell’Antica Grecia a quella Araba, passando per quella Bizantina, riuscendo a mediterraneizzare prodotti alimentari provenienti dal Nuovo Mondo (patate e pomodori su tutti) tramutandoli in pilastri della tradizione italiana.
L’Italia ha all’interno del suo DNA una “pura cucina tradizionale popolare povera”, che nel corso dell’ultimo ventennio ha subito evoluzioni in chiave moderna, dove si è cercato di riprodurre, alcune volte anche con ottimi risultati, la ricetta di una rivisitata nouvelle cuisine. Mestiere non proprio nostro.
Oggigiorno, soprattutto in concomitanza con la crisi economica con la quale stiamo convivendo, ahimè, oramai da qualche anno (troppi), tutto è cambiato.
C’è un veloce ritorno alle tradizioni, ai piatti semplici e poveri, ai gusti classici, alla scissione dei sapori in bocca e alla reale percezione di ciò che si sta mangiando, insomma si cerca di rovinare il meno possibile ciò che la terra ci ha dato, tornando alle cose di un tempo, ad una cucina più sana e salutare che non vuol dire per forza un conto più basso (anche perché le materie prime costano) ma sicuramente più onesto a livello intellettuale.
Logicamente la valorizzazione delle nostre materie prime porta anche ad una riscoperta degli artigiani che producono queste eccellenze (caseifici, allevamenti di razze italiane, produttori di salumi, ecc.. ).
Mai più vera fu l’affermazione di Ferdinand Point che diceva che il miglior risultato lo si ottiene dai prodotti di stagione.
Tutto questo fa sì che le materie prime (come il latte, l’olio, la carne, i formaggi, le farine, le verdure per esempio) spesso e volentieri siano l’unico attore principale di un piatto dove i sapori ben distinti tornano a regnare.
Il vino sta seguendo lo stesso percorso, se vogliamo: negli anni ’80 e ’90 i vini che si consumavano sulle tavole dei ristoranti o di casa erano stilisticamente l’opposto di quelli che stiamo bevendo adesso; il punto di bevuta è completamente cambiato in brevissimo tempo.
Siamo stati abituati per oltre un ventennio a convivere con vini morbidi, burrosi, densi, conditi da speziature legnose più o meno dolci e assemblati con vitigni internazionali (merlot e cabernet su tutti).
Insomma, vini da concorso, pronti subito e che ammiccavano all’American Style (Wine Advocate e Spectator) che tanta fortuna ha portato a tanti produttori e, considerando che buona parte dei vini di Bordeaux sono caduti in questa trappola, possiamo dire di essere stati in buona compagnia.
Oggi fortunatamente il consumatore ha capito che i vini devono avere un’acidità elevata per durare nel tempo (l’opposto della morbidezza), devono essere sapidi o minerali per avere ancora di più la possibilità di abbinamento al cibo, devono avere sicuramente meno legno per rendere riconoscibile il o i vitigni che compongono il blend, ma soprattutto devono avere una tracciabilità, una denominazione che permetta al consumatore, scegliendo la bottiglia, di sapere esattamente cosa sta per bere e, per fortuna, solitamente le denominazioni tendono a preservare il patrimonio genetico dei vitigni autoctoni italiani.
Se consideriamo poi che nell’arco di 8/10 anni in Italia il consumo dei vini bianchi e bollicine è slittato più o meno al 60%, mentre i vini rossi sono scesi paurosamente nei consumi, logicamente anche la nostra enologia si è riadattata.
Alla luce di tutto ciò, non possiamo che affermare che nell’ambito eno-gastronomico sono state ridefinite tante regole, tanti paletti sono stati spostati e il ritorno alle tradizioni è in corso, con la speranza che questo Italian Style possa riemergere e riprendersi quel podio che da sempre gli spetta.